Oggi e’ scomparso Italo Insolera, che e’ stato forse il piu’ grande studioso della “forma urbana” della Roma contemporanea. Insolera riusci’ ad unire tre caratteristiche che solitamente restano separate: quella dell’architetto, quella dello storico e quella del divulgatore. In particolare nel suo libro piu’ noto, “Roma moderna” (1962), con una prosa scorrevole e comprensibile a tutti, Insolera studio’ la forma urbana di Roma non solo in base agli avvenimenti storici, ma anche secondo l’analisi della rendita fondiaria e della politica di gestione territoriale delle diverse amministrazioni capitoline; metodo questo del tutto inedito e – fin da allora – ben poco accettato sia negli ambienti accademici che in quelli politici.
Piu’ di una generazione di architetti si e’ formata sui suoi scritti: per grato ricordo pubblico qui di seguito uno dei suoi ultimi interventi che ben sintetizza lo stile e il metodo divulgativo (tratto da: Ordine Architetti Roma – Documenti di architettura)
Le trasformazioni del territorio nel tempo
Si parla continuamente di “centro storico” e di “periferia contemporanea”, attribuendo a questi termini significati vari e complessi su cui è il caso di soffermarci per chiarire eventuali equivoci e contemporaneamente evidenziare alcuni problemi.
Quelli che oggi sono i recenti quartieri di periferia sorgono su terreni che prima non erano coperti da edifici.
Erano generalmente terreni agricoli. Ma questo non significa che fossero una no man ‘s land deserta; erano coltivati, c’erano degli alberi, per lavorarli i contadini avevano tracciato stradine e sentieri, l’acqua piovana li attraversava secondo certe pendenze, c’erano delle case coloniche, delle stalle, dei magazzini ecc. Ed erano divisi in proprietà di cui spesso i confini erano ben evidenziati da barriere, siepi, limiti catastali ecc.
Con il passare degli anni – e dei secoli – questi segni cambiavano, ma raramente scomparivano del tutto, senza condizionare i segni successivi. Se alla morte del proprietario un terreno veniva diviso tra gli eredi restavano i confini generali esterni e quelli nuovi interni erano probabilmente paralleli a quelli originari o ne seguivano comunque i tracciati anche in modo da permettere sia l’accesso a tutti i frazionamenti, sia lo scorrere dell’acqua impedendo che una particella si allagasse e quella accanto restasse all’asciutto.
Le tracce di opere di proprietà o di interesse collettivo sono ancora più durature. Ritroviamo L’asse di una strada quasi sempre in documenti che si estendono per secoli: cambia la larghezza della via, si modifica qualche curva, si asfalta, ma il tracciato resta sostanzialmente quello, sia perché collaudato dall’uso, sia perché le leggi, le abitudini e i costi funzionano da gigantesco volano inerziale ai cambiamenti.
Anche quando quel terreno agricolo diventa edificabile e si trasforma nella periferia acquisendo i valori sociali urbani, qualcosa della precedente organizzazione rurale probabilmente rimane.
Non tutto certo e diversamente a seconda del modo come quella periferia è stata costruita: una serie di casette edificate una per una in un lungo tempo è più condizionata dalle preesistenze di un unico grande quartiere costruito contemporaneamente dal Comune, o dall’Istituto Case Popolari.
Ma se provate a pensare ai quartieri che conoscete cercando appunto quali elementi precedenti vi sono rimasti, farete certamente delle scoperte interessanti non solo come curiosità storica, ma come spiegazione di modi vivi e presenti.
Per esempio in un quartiere moderno con strade dritte disposte perpendicolarmente c’è una via storta che taglia diagonalmente qualche lotto e va a finire fuori del quartiere: si tratta di una antica via rurale o di traffico, che collegava qualche casale o qualche centro lontano e che è rimasta proprio perché è rimasta, anche se secondaria, quella funzione.
Oppure tra case moderne trovate un vecchio casale con un po’ di terreno intorno, disposto e orientato diversamente, magari anche su una quota più alta o più bassa; anche lui vi presenta un momento precedente, sopravvissuto per qualche motivo.
Può darsi che accanto a una moderna strada di grande traffico ci sia un po’ più in basso, un po’ inclinata, un po’ arretrata rispetto alle corsie percorse in velocità, una chiesetta o una cappella che la Soprintendenza o il Comune hanno imposto di conservare, ma che una volta erano un elemento importante allineato ed emergente sulla vecchia via: la nuova lo ha relegato e nascosto.
Anche in un centro storico le realizzazioni di un’epoca hanno condizionato quelle delle epoche successive: e se tante sono le fasi storiche che si sono sovrapposte – come a Roma e in tante città italiane ed europee – è proprio da queste coesistenze e permanenze che si è formata la nostra città attuale.
E’ frequente che le case del centro storico di Roma abbiano le fondazioni costituite da muri romani antichi (che erano magari allora il pianterreno o il primo piano di una casa poi interrata); il pianterreno sia formato da muri medievali; il primo piano da quelli di una casa rinascimentale; il secondo sia una trasformazione barocca e l’ultimo una sopraelevazione XX secolo, magari abusiva.
Fino all’avvento dei moderni sistemi costruttivi e dei macchinari edilizi, chi doveva costruire era ben contento di trovare dei muri collaudati da secoli su cui edificare risparmiando materiale e con maggiori garanzie statiche di quelle possibili allora partendo da zero.
Goethe quando soggiornò a Roma trovò che proprio questa era la specificità di questa città: andare a cercare le varie epoche tutte presenti e tutte sovrapposte una sull’altra. Roma è eterna – scrisse – proprio perché tutte le epoche sono presenti oggi, e non perché la città simboleggi qualcosa dalla creazione alla fine del mondo.
Roma è una città in cui quasi tutte le piazze, le vie, i palazzi, i complessi sono frutto della sovrapposizione di epoche successive, dell’opera di Papi magari lontani secoli uno dall’altro e i cui architetti hanno magari stravolto l’opera dei predecessori per arrivare a un risultato che a noi sembra unitario.
Si accenna a qualche esempio.
La Fontana di Trevi. Nel 19 a.C. arriva qui il terminale del nuovo acquedotto dell’Acqua Vergine che continua a funzionare quasi sempre nei secoli successivi. Nel 1400 e 1500 i Papi vi sovrappongono i loro stemmi e qualche motto in latino (che nessuno sapeva leggere). Urbano VIII (1623 -1644) incarica Bernini di fare la fontana; ma Bernini si limita ad abbattere alcune case per fare la piazza.
Dopo tanti progetti rimasti sulla carta, Clemente XII nel 1732 incarica Nicola Salvi (1697- 1751) e nel 1744 l’acqua arriva dentro a una vasca in cui le future statue sono ancora dei modelli in legno o gesso. Dopo la morte di Salvi, Giuseppe Panini termina la fontana nel 1762, ma cambia il progetto di Salvi abolendo la cascata e portando a tre il numero delle vasche. Sono passati 1781 anni dal primo rubinetto e 120 dal primo schizzo di Bernini. La fontana a noi oggi sembra un’opera unitaria, fatta in un solo momento da un solo scultore. Ognuno dei tanti che ci ha lavorato è stato invece motivato e condizionato dal lavoro di chi lo aveva preceduto.
Andiamo all’incrocio delle Quattro Fontane: Sisto V e Domenico Fontana – che tracciarono le vie misero un solo obelisco a Santa Maria Maggiore perché volevano evidenziare quella direzione. Due secoli dopo furono sistemati gli obelischi su altri due assi cambiando completamente l’immagine e il senso di quegli obelischi.
Da piazza del Popolo partono tre famose strade. Quella centrale – via del Corso – è una delle più antiche strade extraurbane di Roma: usciva dalle mura del Campidoglio, pressappoco dove adesso c’è piazza Venezia, e andava dritta fino a Ponte Milvio, dove si entrava in Etruria. Nel 1518 viene costruita verso il Tevere una via per andare lungo il fiume fino al Vaticano (Il Campidoglio non interessava più).
Poi c’è la Riforma e il Sacco di Roma: con l’inizio della Controriforma le ricche famiglie romane cominciano ad abitare sulle colline e tracciano una via dall’altra parte (via del Babuino) che porta appunto verso le grandi ville papali e cardinalizie: la tracciano simmetrica rispetto a Ripetta, col Corso come asse. Obbligano così nel ‘600 a costruire due chiese uguali e simmetriche (S. Maria di Montesanto e S. Maria dei Miracoli). La piazza è sempre uno slargo quasi rettangolare tra muri di cinta di orti e conventi. Nel 1816 Valadier progetta la piazza rotonda con l’obelisco al centro e a noi oggi tutta questa roba durata secoli e millenni ci sembra un fatto unitario, deciso e fatto da un solo artista in un solo momento.
Scopriremo una città in continua trasformazione: non una serie di quadri urbani fatti e finiti, da ammirare come quadri. Ma una città che si forma attraverso momenti successivi che però raramente distruggono quello che già c’è: lo considerano anzi come una ricchezza preziosa e vi aggiungono altro. E quando distruggono (come a un certo momento del Rinascimento) ci fanno rimpiangere quello che è scomparso: Bramante distrugge il paleocristiano di Costantino, il secondo Michelangelo è pronto a distruggere il primo Michelangelo ecc.
Ma fu un momento abbastanza limitato in cui la presunzione delle Guerre di Religione offuscò un po’ tutti, anche chi arrivava sul soglio di Pietro e ancora di più gli architetti ed artisti che chiamava alla sua corte.
Con la Guida del Touring (quella rossa grande, ricca di tutte le notizie necessarie) e poi per entrare di più nei fatti e nei dettagli con le Guide rionali edite per il Comune di Roma da Palombi, possiamo analizzare con questo criterio tutta Roma.